venerdì 13 giugno 2008

VERBO NON VEDENTE

Krenar Zejno

Verbo non vedente

Il pischello fa strada all’ava cieca che ciondola sul tortuoso calle degli schizzati. Appoggia la vecchia al muro della caffetteria con nome da scrittore, e s’avvicina al tavolino degli ospiti delle Nazioni Unite che stanno abbrustolendo sulla carta il selciato delle cartoline. Il pischello fa per rivolgere la parola a qualcheduno, ma vede che sono altrimenti presi, e si volta a giocare per un po’ con l'ava. Le dice di lanciarsi in su, perché c’è un grappolo d’uva che l’aspetta proprio sulla testa. La pergola è stata strappata da anni dal muro di cinta, e la vecchia cieca s’allunga e poi salta veramente a cogliere il nulla che lei si figura realtà. Poi si stupisce per l’ennesima volta perché le cose non hanno più ognuna il suo odore come una volta.

Lo straniero dai capelli leccati sopra le sopracciglia congiunte chiede all'indigeno cosa stia succedendo, s’alza di scatto e afferra dalla appoggio della sedia senza fondo la camera fotografica. S’affaccia sul portone, e prende a inquadrare la vecchia intenta a filare di forca. Dopo i lampeggi consecutivi del flash, diretti sugli occhi spenti della vecchia, si gira verso il tavolo con il pollice alzato nel pugno del braccio piegato come avvolto in un cataplasma. Poi con l'indice, sembra dire qualcosa al pischello con un sguardo di rimprovero. L'indigeno, quello che aveva tenuto l'ombrello sulla soglia, lo traduce:

- Debosciato, cosa fai alla nonna, è così che ci si comporta con la disgrazia del prossimo?

- Di grazia o disgrazia non so dire, ma la nonna me la curo come credo.

Dopodiché, il ragazzo si porta dirimpetto allo sguardo dell'amico di fronte con gli occhi storti che rifuggono ogni impressione.

Porge la mano, con le due dita combaciate come quelle della nonna quando fila la lana a fiocchi.

- Ce l’hai due euro messi male, che prendo un caffé per la mia ava?

L'ospite occhi di rospo sembra capire qualcosa, stacca la punta del lapis dalla mappa e porge il sorriso di turno coi denti falsi, che si muovono al ritmo della parola.

Il pischello accompagna con gli occhi le dita dell'altro che si sfiorano, come se beccassero il filo passato per la cruna dell'ago e si aprono come per buttare l’occhiello, e sente una sola parola:

- Tomorrow!

L'indigeno a lato, il motto appena sfuggito alla bocca aliena, lo spiega per il lungo nell'idioma del pischello:

- Domani!! Dice di venire domani ché oggi non ha tempo, come Bedua di Hava quando dice non posso darti il buongiorno se no faccio tardi al lavoro.

- Ma quale boia mondo di un domani? Domani è il mio giorno di riposo. Perché l'ava non c'è. Vuol suicidarsi. Si sarebbe ammazzata oggi, perché all'arrivo dei multinazionali c'è il rincaro del caffé. E lascialo rincarare questo caffé, no, dico io? Una manciata di caffé in prestito, una manciata di caffé e cancelli il debito. Dicono che appena va tutto a catasto dell'unesco, la gente verrà a visionare e portarsi via i soffitti in legno. L'ava lo venderebbe anche il soffitto, per farsi la tomba. Parla a vanvera perché non ha preso il caffé. Dice, che ci stanno quelli che vorrebbero vendere le tombe per fare i soffitti. Come si confonde mentre copre gli occhi con il palmo quando non riesce ad ascoltare il canzonare del muezzin che tuona dall'altoparlante in cima all'albero di cipresso. Ma io dico che se non domani, senz'altro dopodomani l'ava mia si fa fuori, quando verranno questi amici e prenderanno la grande pietra del caffé per portarla altrove.

In borgata dicono che l’ava sa il fatto suo e macina il caffé così bene proprio perché non ci vede una cicca. Io dico che se fosse così come dicono gli invidiosi, se veramente l’invidiano fino a questo punto, perché non si cavano da soli gli occhi come diceva anche il dottore del villaggio di sopra, sul lato dei nevai. Ma anche se ha già il caffé, l’ava non me la respinge quando glielo porto, e invero, né Adhamudh[1] e né altri siffatti, sotto il sole o sotto l’ombra, ce l’hanno mai fatta, come solo Democrito c'è riuscito. Io le chiedo se questo uomo antico si cavò gli occhi perché voleva fare meglio le cose, o gli serviva la cecità perché non gli si impasticciasse il sapere. L’ava dice, che anche se ne potesse azzeccar checché in cotanto vicolo cieco, mica lo verrebbe a dire a me, e quindi, dovrei spremermi le meningi e indovinarla da me. Per dispetto le lo ho rubato il foulard nero in testa e mi sono nascosto, occhi bendati, nella catapecchia. Sembrava una notte senza luna, più senza luna di un nascondino dove si conta fino a cento. Arrivai fino a novantasette, ma mi fermai perché mi venne a mente il figlio dell’esule quando dice che la luna ci è ben più utile del sole perché ci illumina di notte, mentre di giorno, è giorno anche se non c’è sole. Ne avrei apprese di altre nel buoi della catapecchia, ma non riuscii a tenere più gli occhi chiusi quando presero a suonare le campane della chiesa. Allora, come sempre l’ava comincia a picchiare sul mortaio di bronzo, in modo da camuffare il rumore se no il vicino si scalmana e piagnucola.

Guarda! Io dico che se l’ava alzasse la macina del caffé, e lo portasse con ambe le mani e io le facessi strada tirandola per lo scialle, questi guerci potrebbero pigliarci tutti e tre e accompagnarci da qualche parte, nel gan bel mondo in un posto buono. Così come hanno fatto con il tetto di Bike e la stessa Bike che recalcitrava sul suo camino e si strappava i capelli. O vengo anche io con il tetto, e mi butto qui e mi muoio! E su a graffiare le guance finché prende a piovere, e giù con le lacrime fino al tramonto, al che i multinazionali saggiarono la fame e si precipitarono a rotta di collo per farle compilare tutte le carte necessaria per portarla con loro. L’esule dice di aver visto nei musei le tegole scritte assieme con la criniera di Bike. Ma ecco che i tipi dei musei in esilio, non sanno affatto che quel tetto, a momenti sarebbe andato a pezzi, quando l’ava, anni addietro, in cima al muro anteriore, giurava e spergiurava che, non so poi per quale dispetto, si sarebbe buttata dal castello. Ci sarebbe piombata in pieno, se non avesse creduto al mia menzogna che sarebbe finita sulla tekka.

Nondimeno pure se andiamo assieme al macino, si toglierà comunque la vita per la madia di quercia e il braciere che le rimangono qua. Cominciamo ad andare dice lei, poi strada facendo decidiamo come comportarci... Il prete le sussurra all’orecchio che quando vai in un posto ti si aprono gli occhi. E metti che le si aprano. Si toglierà la vita comunque, senza batter ciglio, quando vedrà che ha parlato ogni giorno con l’Asso di fiori che lo ho messo al posto della fotografia del nonno nel taschino della maglia. Quel giorno, quando è uscita dall’acqua e non ha visto il nonno travolto dalla fiumana, non si è affogata soltanto perché aveva dimenticato di lasciarmi la chiave del baule.

Perché l’ava se oziasse e se la prendesse comoda, si toglie la vita per un niente, ma per un niente di niente no... per un bel niente proprio no.

tradotto dall’albanese da A. CANI


[1] Personaggio simbolo del medicone impostore, coniato dal padre del teatro in lingua albanese A.Z.Çajupi.

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